Come fuori così dentro…e viceversa

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Ho letto di un medico russo che ha seguito per alcuni anni un gruppo di anziani pazienti.

A distanza di un paio di mesi dall’ultimo incontro, alcuni di questi mostravano impressionanti miglioramenti nel decorso della malattia ed erano talmente energici e vitali rispetto a tutti gli altri che il medico chiese loro cosa avessero fatto in quel periodo. Questi risposero di aver saputo di un monastero sulle montagne dove la gente andava per quaranta giorni per poi tornare a casa sana e in buona salute. Così erano andati anche loro, e adesso si trovavano in quello stato così positivo. Non erano però in grado di dire cosa i monaci avessero fatto loro per ottenere un risultato simile.

Allora il medico, spinto dalla curiosità e dalla speranza di carpire il miracoloso mistero, senza esitazione si recò al monastero. Il posto si raggiungeva salendo un’impervia montagna in sella a degli asini che, una volta arrivati in cima, tornavano a valle con il gruppo di ospiti che aveva concluso la propria permanenza. Non si poteva andar via prima dell’arrivo di un nuovo gruppo di persone. I monaci istruirono subito i nuovi arrivati sulle regole del monastero, tra le quali c’era quella di non poter andare in giro con uno sguardo che comunicasse negatività. Chi contravveniva alle regole doveva andare a prendere l’acqua dalla fonte. «Ragionevole!» pensò il medico.

Il primo giorno tutti gli ospiti si ritrovarono in punizione a causa dello sguardo negativo, e scoprirono allora che la fonte d’acqua si trovava in fondo a una valle che si raggiungeva attraverso un’impervia scalinata. Pare che il dottore fosse piuttosto arrabbiato mentre si inerpicava con la brocca di venti litri sulla testa, e che si chiedesse cosa ci faceva in quel posto. Comunque, arrivato all’ultima rampa, cercò di stamparsi sul viso un bel sorriso per evitare un’altra scalata e consegnò la pesante brocca al monaco, che pacatamente lo invitò a tornare nuovamente alla fonte, dato che lo avevano osservato con il cannocchiale mentre risaliva il dirupo e avevano visto la sua espressione.

La punizione dell’acqua andò avanti per molti giorni e colpì la maggior parte dei visitatori. Pian piano, però, i loro sguardi cominciarono a modificarsi. Il medico si rese conto che i monaci non propinavano alcun particolare tipo di cura: la semplice correzione dello sguardo insieme alla pratica fisica di trasportare brocche di venti litri sulla testa — che li aveva costretti ad assumere una postura diritta — provocava incredibili miglioramenti sul loro umore e sulla loro salute.

Gli ultimi giorni, quando ormai i visi degli ospiti erano sensibilmente cambiati, i monaci indicarono loro un’altra fonte dalla quale potevano attingere l’acqua, che si trovava proprio dentro il monastero.

Questa storia ci parla di come, modificando qualcosa di esteriore come lo sguardo, si possa cambiare (pian piano e con una pratica assidua) qualcosa di interiore (l’umore e persino lo stato di salute!). Siamo degli esseri organici, in cui interiorità ed esteriorità sono strettamente collegate. E, parafrasando Ermete Trismegisto, potremmo dire: «Come dentro così fuori». E viceversa. Questo principio di organicità al quale ho già fatto riferimento più volte e che nelle filosofie orientali ha radici molto antiche, è stato sostenuto negli ultimi cinquant’anni anche da filosofi, cognitivisti e ricercatori occidentali specializzati in intelligenza artificiale. In particolare, la filosofia del corpo o della mente incorporata afferma: «La natura e la struttura delle nostre operazioni mentali sono direttamente collegate alla natura del corpo e al modo con cui esso interagisce con l’ambiente». Di fronte a quest’ultima affermazione, uno studente zen potrebbe indulgere in un sorriso e affermare: «Mi sembra di averlo già sentito dire qualche secolo fa!».Va tenuto conto, però, che in termini scientifici la cultura occidentale è stata lungamente dominata dal dualismo cartesiano e dall’oggettivismo newtoniano. Praticamente fino agli anni Cinquanta, l’essere umano rispetto a se stesso era ancora largamente pensato come un’entità fatta di due parti separate: la mente, che aveva capacità di essere libera, illimitata e consapevole, e il corpo, che era invece limitato, schiavo della propria natura istintivo-emotiva e inconsapevole. E questo stesso individuo spaccato in due, fino agli inizi del secolo scorso era inserito in un mondo a sua volta pensato come nettamente diviso tra osservatore e osservato, come ribadito da Newton.

Eppure, empiricamente, questo principio di organicità era conosciuto non solo dai praticanti dello Zen, ma anche dai nostri antenati. In passato, quando le cure mediche erano poco più che dei palliativi, una delle terapie che riscuoteva maggiore successo tra la gente facoltosa era quella di mandare il malato a cambiare aria, cioè lontano da casa, di solito in qualche località balneare o termale, e possibilmente da solo. Non che in quei posti avessero medicamenti migliori, semplicemente il malato cambiava ritmi, abitudini e frequentazioni, cambiava il cibo, cambiavano gli odori e i suoni che sentiva, dove e quindi come si sedeva, il panorama che vedeva dalla finestra… Tutto questo costringeva i pazienti a modificare le proprie abitudini esteriori, cosa che, come nel caso degli anziani russi, produceva spesso un cambiamento anche su un altro livello, portando in alcuni casi a delle ‘ingiustificate’ guarigioni.

Oggigiorno l’idea di un essere umano organico rispetto a se stesso e rispetto a ciò che lo circonda (io-mondo, come sostengono fisica quantistica e movimento ambientalista) sta diventando sempre più di dominio pubblico. Eppure non dovremmo meravigliarci delle resistenze che si possono ancora incontrare nell’accettare questo principio se applicato ai gesti della vita quotidiana, ovvero quando lo si deve praticare davvero. Incarnare questa visione è molto diverso che accettarla teoricamente, come dovreste aver notato se vi siete cimentati anche solo in uno degli esercizi e delle osservazioni che ho proposto nel terzo capitolo. Tale idea della vita è ancora molto giovane e poco radicata nella nostra cultura. Detto questo, va chiarito che il cambiamento di un gesto esteriore non produce effetti immediati nell’interiorità, come abbiamo visto nella storia dei pazienti russi, è stata necessaria una pratica costante e prolungata per ottenere dei risultati, e questo vale a maggior ragione se si sceglie di affrontare quei comportamenti abitudinari collegati a un blocco evolutivo che si sono fortemente radicati in anni di “pratica” quotidiana. È per questo che la nostra vita fondamentalmente non cambia anche quando riusciamo a praticare la nostra mezz’ora al giorno di preghiera, meditazione o yoga, perché nel resto del tempo continuiamo ad agire secondo gli schemi di sempre. Se intendiamo sgretolare la zolla, occorre piuttosto modificare il come ci comportiamo nella maggior parte del tempo.

Per risolvere i propri problemi e superare il blocco evolutivo, personalmente suggerirei a Sara di modificare in modo consapevole quei comportamenti che affondano le radici nella sua zolla del non completare-non finire, cominciando da quelli sui quali risulta più semplice agire, e cioè che fanno capo al corpo fisico: impegnarsi a finire di mangiare e bere tutto quello che ha nel piatto e nel bicchiere, lavare le stoviglie fino all’ultimo oggetto e così via. Già solo questi semplici gesti coscienti comincerebbero a modificare la sua struttura interiore. Il secondo passo sarebbe quello di agire sul corpo mentale e quindi impegnarsi a rimanere vigile nell’ascolto fino alla fine di un discorso e a completare le frasi. Il cambiamento sul piano fisico e su quello mentale inizierebbero pian piano a influire su quello emotivo. E Sara potrebbe dedicarsi con maggiore probabilità di successo alle proprie relazioni professionali e sentimentali, al fine di renderle più stabili e durature. Insomma, se cambia il tuo modo di agire, di parlare, di mangiare e poi di pensare e di ragionare diventi un altro, ed è abbastanza intuitivo che incontrerai nuovi tipi di persone. Ed è quindi sin troppo ovvio che la tua esistenza sta cambiando. Eppure, spesso siamo soliti pensare che la nostra vita debba mutare negli aspetti più complessi, ma non siamo disposti a rinunciare alla più semplice delle abitudini.

Noi non siamo ciò che pensiamo di essere, siamo ciò che facciamo dalla mattina alla sera, e soprattutto come lo facciamo! Se non si arriva a comprendere questa profonda verità, tutto il resto è pia illusione. Quindi, per trovare un compagno affidabile, Sara dovrebbe mangiare tutto quello che ha nel piatto? Sebbene messa così questa affermazione possa far sorridere, dal mio punto di vista un blocco si comincia ad affrontare in maniera concreta e costruttiva partendo da queste azioni semplici. Un cambiamento delle strutture esteriori può, grazie alla ripetizione quotidiana, produrre dei cambiamenti nelle strutture interiori. Ma non solo! Tutti questi cambiamenti esteriori, infatti, mostrano agli altri un altro me, e ciò produce risposte differenti rispetto a quelle che riceviamo solitamente. Il nostro inconscio percepisce come in uno specchio un se stesso diverso, gradualmente si convince di essere effettivamente differente e fa in modo che si inneschi un processo virtuoso, il cui risultato è un’evoluzione reale, che avviene giorno dopo giorno. È in questo modo che i nostri gesti quotidiani diventano la nostra pratica evolutiva e che momento per momento e passo dopo passo ci permettono di volare verso le alte vette dell’umanità, pur continuando a mantenere i piedi ben saldi per terra.

Tratto dal libro Volare con i piedi per terra
di Carlo Magaletti

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