Genio o ritardato?

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Quello che oggi viene giustamente ritenuto uno dei geni della scienza moderna, fu un bambino da qualcuno considerato ritardato, lento nel parlare e lento di comprendonio, sul cui sviluppo mentale i genitori nutrirono, per qualche tempo, serie apprensioni.

Quando nacque, impressionata dalla sua testa straordinariamente grossa e appuntita, la madre temette di aver partorito un essere deforme. Fino a 3 anni non disse una parola, dai 3 ai 7 stentò a esprimersi – ripeteva tutto ciò che gli veniva detto “anche quando si trattava di frasi comunissime” – e solo dopo i sette anni cominciò a parlare normalmente.

Molto preciso e meticoloso (riusciva a costruire perfetti castelli di carta alti fino a quattordici piani) era un bambino bizzoso e irascibile. Gli accessi d’ira lo rendevano terreo nel viso, mentre la punta del naso perdeva ogni colore. Così dovette apparire, a 5 anni, alla maestra di musica che gli insegnava a suonare il violino, quando le tirò addosso uno sgabello; e quando, per fortuna senza riuscirvi, tentò di scoperchiarle la scatola cranica con una paletta da spiaggia.

A 10 anni stentava a eseguire le più elementari operazioni aritmetiche (come, per esempio, le addizioni). “Da lui”, disse uno dei suoi insegnanti ai genitori “non c’è da aspettarsi granché”.

Tratto da: www.informagiovani-italia.com

Cosa aveva che noi non abbiamo?

E’ ciò che voleva sapere il dottor Thomas Harvey, patologo in servizio all’ospedale di Princeton quando il nostro protagonista morì nel 1955. Per “puro caso”, il “destino” aveva scelto lui per svolgere l’autopsia. Senza il permesso della famiglia, Harvey prese l’iniziativa di rimuovere e mettere da parte il cervello dello scienziato. Per i successivi quarant’anni, Harvey conservò il cervello in vasetti di formaldeide, studiandolo parte per parte al microscopio e distribuendone, a richiesta, piccoli pezzi ad altri ricercatori. Il suo obiettivo? Svelare il segreto di questo genio.

[…] Harvey non trovo mai niente, ma una sua collega sì. Dopo aver esaminato alcune sezioni del cervello, nei primi anni Ottanta Marian Diamond, una neuroanatomista dell’ Università della California a Berkeley, annunciò una scoperta sorprendente – tale da poter rivoluzionare le idee riguardanti l’apprendimento e la genialità.

Creare un genio

La maggior parte della gente suppone che geni si nasca, non che lo si diventi. Ma la Diamond dedicò la sua carriera a creare geni in laboratorio.

In un famoso esperimento, la ricercatrice pose dei topi in un ambiente super – stimolante, completo di altalene, scale, ruote e giochi di ogni tipo. Altri topi furono confinati in semplici gabbie. I topi che vivevano nell’ambiente con un’elevata quantità di stimoli non solo raggiungevano l’eccezionale età di 3 anni (l’equivalente dei 90 anni in un uomo), ma il loro cervello aumentava di dimensioni, facendo crescere foreste di nuovi collegamenti tra cellule nervose sotto forma di dendriti e assoni – strutture affusolate, simili a tronchi, che trasmettono segnali elettrici da una cellula nervosa (o neurone) all’altra. I topi che vivevano in gabbie normali, invece, rimanevano inattivi e morivano più giovani. Il loro cervello presentava, inoltre, meno collegamenti tra cellule.

Già nel 1911, Santiago Ramon y Cajal, padre della neuroanatomia, aveva scoperto che il numero delle interconnessioni tra neuroni (dette sinapsi) era la misura reale del genio, ben più importante nel determinare il potere mentale rispetto al semplice numero di neuroni. L’esperimento della Diamond dimostrò che – almeno nei topi – il meccanismo fisico del genio poteva essere prodotto grazie all’esercizio mentale.

Lo stesso principio vale anche per le persone? La Diamond voleva scoprirlo. Ottenne sezioni del cervello dello scienziato e le esaminò. Come si aspettava, scoprì un numero elevato di cellule gliali nel lobo parietale sinistro, una specie di stazione di scambio neurologico che la Diamond descrisse come “un’area di associazione per le altre aree di associazione del cervello”. Le cellule gliali agiscono come una sorta di colla che tiene unite le altre cellule nervose ed aiuta, inoltre, a trasmettere segnali elettrochimici tra i neuroni. La Diamond si aspettava di trovarne, perché aveva già individuato un’alta concentrazione di cellule gliali nei cervelli dei topi cerebralmente più sviluppati. La loro presenza nel cervello dello scienziato suggeriva che fosse in corso un processo di arricchimento simile.

[…] Le cellule gliali, gli assoni e i dendriti possono aumentare di numero durante tutta la vita, a seconda di come si usa il proprio cervello. Il lavoro della Diamond suggerì che più impariamo, più si formano connessioni di questo tipo. Allo stesso modo, quando smettiamo di apprendere e la nostra mente rimane inattiva, questi collegamenti avvizziscono e diminuiscono poco a poco, fino a scomparire.

L’implicazione è chiara. Se il cervello di Albert Einstein ha funzionato in qualche modo come il cervello dei topi della Diamond, allora sarebbe possibile creare nuovi Einstein con un esercizio mentale sufficientemente stimolante.
Senza limiti!

Tratto da Il fattore Einstein
di Win Wenger e Richard Poe

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