Il caos della vita come opportunità

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In un discorso di Elizabeth Mattis sull’aprirsi alla realtà delle cose così come sono, una donna racconta di come è arrivata a capire che tecnica meditativa e pratica non sono la stessa cosa. Quando ho ascoltato il discorso la prima volta, la sua riflessione mi ha colpita. È stato un vero e proprio flash – ho avuto la netta sensazione che qualcosa che fino ad allora era rimasta oscura mi si era improvvisamente chiarita.

Durante i miei primi anni di pratica, ero totalmente concentrata sugli aspetti tecnici della meditazione. Pensavo che se solo avessi potuto impararli adeguatamente, tutto sarebbe andato per il meglio. Questa è l’attitudine tipica del mondo umano, uno dei sei mondi utilizzati dal Buddismo per rappresentare gli stati mentali che ci imprigionano nella sofferenza ciclica.

L’attitudine del mondo umano si basa sulla falsa convinzione che possiamo trovare sicurezza e stabilità fuori di noi invece che nella nostra mente. Quando ci sediamo in meditazione siamo convinti che la nostra mente diventerà calma e stabile solo se manteniamo una postura corretta, se siamo nel giusto stato d’animo e se abbiamo tempo abbastanza. E anche se non ci sono distrazioni: nessun rumore, nessun’altro intorno o al massimo solo persone che stanno anche loro meditando in silenzio.

Persino la meditazione può essere utilizzata per rinforzare la nostra tendenza abituale a cercare sollievo dalla sofferenza. Magari intellettualmente ci è ben chiaro che il samsara [N.d.R.:ciclo delle rinascite e delle morti] è inevitabile, ma poi di fatto cerchiamo di evitarlo attraverso la meditazione perfetta. Ci fissiamo con l’idea che meditare è il rimedio alla fondamentale instabilità della nostra vita.

Il Maestro tibetano Chögyam Trungpa ha detto: “La brutta notizia è che stai cadendo nel vuoto, niente a cui aggrapparsi, nessun paracadute. La bella notizia è che non c’è alcun suolo”.

Quando ho ascoltato questa frase la prima volta, mi ha un po’ scosso. Non mi piaceva perché non volevo credere che la natura fondamentale di ogni cosa fosse l’instabilità. Volevo a tutti i costi trovare la soluzione al samsara in questa mia esistenza umana ispirata a valori molto umani come giustizia e onestà. Sentivo che doveva esserci un barlume di stabilità, di certo, perché ogni tanto le cose andavano per il verso giusto.

Negli anni, però, avendo lavorato a sganciarmi dalla pura e semplice tecnica, questo insegnamento mi ha aiutata a comprendere molto meglio la pratica. L’insegnamento non ci dice che la stabilità non esiste; ci dice che la stabilità è qualcosa che ha a che vedere con il nostro stato mentale.

Frequentando centri di Dharma, sento spesso le persone parlare delle sfide e delle difficoltà della loro vita come dei momenti di instabilità, di scarsa centratura, di poco radicamento. È normale infarcire i nostri discorsi con i termini che impariamo lungo il sentiero di pratica; e come ogni abitudine, anche questa andrebbe analizzata con attenzione. Associare il termine “instabilità” alle esperienze difficili che ci mettono alla prova dimostra che non abbiamo ancora compreso appieno gli insegnamenti che riceviamo. Ricordiamoci che Chögyam Trungpa non ha detto che l’instabilità è un problema. Ha detto invece che è una bella notizia.

La paura di cadere non è legata alla caduta in sé. È legata invece al fatto che, se cadiamo, cadiamo su qualcosa, e quello può far male. Nella nostra realtà fisica, cadere per terra anche da una piccola altezza non è di solito un’esperienza piacevole.

Immagina di cadere nel vuoto; all’inizio è spaventoso, perché ti aspetti di schiantarti contro qualcosa. Ma poi ti rendi conto che non c’è nulla su cui atterrare. Non c’è una fine della caduta. C’è solo un continuo e costante movimento.
Non c’è alcun suolo su cui cadere.

Non c’è alcuna rete di sicurezza, nessun momento perfetto che resti tale per sempre. C’è sempre e soltanto impermanenza e cambiamento. Rendersi conto di questo è liberante: ci libera dalla paura di cambiare, di perdere i nostri equilibri.

La realtà esterna è instabile e lo sarà sempre. A volte questo appare più evidente. Ad esempio, quando vengono a galla i comportamenti trasgressivi di un Maestro, ci sentiamo scaraventati in una tempesta. Quando una comunità di praticanti si trova a fare i conti con le conseguenze degli abusi di potere perpetrati dalle guide spirituali, instabilità è la parola più adatta per descrivere ciò che accade. Quando qualcuno, che dovrebbe incarnare qualità come saggezza e compassione, abusa sessualmente, emotivamente e mentalmente di altre persone, fare i conti con questa realtà può essere alquanto destabilizzante.

Non perché la situazione avesse di per sé una certa stabilità e improvvisamente l’ha perduta. Stavamo già tutti cadendo, da sempre. È che quella notizia ha gettato la nostra mente nel panico che deriva dall’essere in caduta libera. E questo non vuol dire che non dovremmo sentirci scossi, ma quanto andiamo in panico dipende dalla nostra pratica e da quanto abbiamo realmente lavorato per stabilizzare la nostra mente, e non semplicemente per correggere la nostra postura.

In un altro insegnamento, Chögyam Trungpa afferma che “il caos dovrebbe essere considerato una benedizione”.

Instabilità e caos rimandano entrambi alla stessa verità fondamentale, e cioè che la vera natura dell’essere vivi è l’interdipendenza, e l’interdipendenza implica essere soggetti all’imprevisto e al cambiamento. Se tutto andasse sempre come vogliamo, non avremmo bisogno della pratica. Se tutto filasse via liscio senza nessuna difficoltà, il Dharma sarebbe inutile.

È proprio quando diventiamo consapevoli che la stabilità è un’utopia e che tutto è in continuo cambiamento, che la pratica diventa cruciale. Quello è il momento di fare ciò che va fatto, ovvero osservare la mente e vedere come risponde alle situazioni più caotiche. È il momento in cui ogni aspetto della nostra esperienza si intensifica, dove possiamo incontrare i nostri limiti e vedere quale saggezza racchiudono, e possiamo praticare la calma mentale e sperimentare la libertà data dal fatto che non c’è alcun suolo su cui cadere.

Impermanenza, caos, instabilità, comunque lo vogliamo chiamare, quello è il nostro scenario di pratica. La cosa buona che porta con sé è che ci offre l’opportunità di stabilizzare la mente.

Tratto da Mindfulnessbergamo.net

2 Commenti

  1. Maria Luisa

    Bellissimo è vero .Grazie a voi che pubblicate questi articoli.

    Rispondi

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