Il disastro aereo delle Ande

Era il 12 Ottobre del 1972 e il volo charter 571 decollò dall’aeroporto “Carrasco” di Montevideo, in Uruguay con destinazione Santiago del Cile.
A bordo si trovava l’intera squadra di rugby degli Old Christians Club, che con i rispettivi allenatori, parenti e amici, si stava recando a disputare un incontro al di là della Cordigliera delle Ande.
Le perturbazioni però erano tali che l’aereo dovette atterrare a Mendoza, in Argentina, con l’obiettivo di rimettersi in volo una volta calmato il maltempo.

Il giorno successivo il copilota Lagurara e il comandante Ferradas si confrontarono con alcuni colleghi provenienti dal Cile per capire meglio la situazione del maltempo.
L’aereo inoltre era stato noleggiato presso l’aeronautica militare uruguayana e secondo le vigenti norme era vietato agli aerei militari stranieri rimanere più di 24 ore sul territorio nazionale.
I piloti dovevano quindi decidere se tornare indietro o ripartire per Santiago.
I ragazzi della squadra di rugby non persero occasione per prendersi gioco dei piloti: “Vi abbiamo pagato per portarci a Santiago del Cile… non per riportarci a casa!”.
Non sappiamo se la continua pressione fatta dai passeggeri sui piloti contribuì o meno a far prendere loro la decisione di ripartire verso Santiago del Cile.

La cordigliera della Ande è un’imponente catena montuosa con i suoi 7.200 km di lunghezza, 240 km di larghezza media e vette che sfiorano i 7.000 m.
Il piccolo aereo, un Fokker F27, non poteva sorvolare quelle imponenti cime per cui i piloti avrebbero seguito le rotte aeree che attraversano la catena montuosa in corrispondenza di alcuni passi.
Durante il volo tutto procedeva tranquillamente. I ragazzi, quasi tutti ventenni, scherzavano tra loro.
Chi parlava dell’esito della partita e chi parlava di ragazze.

Accadde però qualcosa d’irreversibile. Alle 15.24 del 13 Ottobre il pilota Lagurara chiamò la torre di controllo di Santiago, comunicando di essere arrivato sopra Curicó e che avrebbe a breve iniziato l’avvicinamento per atterrare all’aeroporto di Santiago.
Purtroppo i suoi calcoli erano errati…
I piloti erano infatti convinti di aver superato le montagne e così l’aereo cominciò a scendere di quota.
Solo una volta attraversato lo spesso manto di nuvole i due piloti e tutti i passeggeri si accorsero che stavano finendo nel bel mezzo delle Ande, volando a pochissimi metri dai crinali rocciosi!

Per rimediare all’errore i due piloti spinsero i motori al massimo per riprendere quota ma oramai era troppo tardi: a 4200 metri d’altitudine l’aereo colpì con l’ala destra la cima di una montagna.
L’ala si staccò di netto e ruotando violentemente tagliò la coda dell’aereo che precipitò portando con sé alcuni passeggeri.
Un enorme buco si era aperto dietro di loro risucchiando altri passeggeri.
La fusoliera urtò violentemente un altro spuntone di roccia che staccò di netto anche l’altra ala.
La carlinga, sospesa a mezz’aria come un missile, si schiantò a terra percorrendo 2 km prima di arrestarsi sul manto nevoso.

In pochi minuti si era scatenato l’inferno.
Una fusoliera semidistrutta giaceva in mezzo alla neve a 3.657 m di altitudine.
Attorno il niente, solo neve e montagne che si perdevano a vista d’occhio.
“Nando? Nando mi senti? Stai bene?”
Distingueva solo delle sagome scure e macchie di luce e ombra.
All’improvviso scorse i contorni di una figura china su di lui.
“Coraggio Nando, svegliati!”
Il suono gli arrivava ovattato.
La realtà sembrava lontana e confusa, come se fosse prigioniero di un sogno e non riuscisse a svegliarsi.
Chiuse gli occhi e li riaprì venendo investito da una lama di luce che penetrava attraverso piccoli fori circolari.
Un attimo dopo riconobbe gli oblò rotondi dell’aeroplano.
Capì in quel momento di essere disteso sul pavimento della cabina passeggeri ma quando guardò verso la cabina pilotaggio scoprì che era tutto fuori posto.
“Siamo precipitati, l’aereo è precipitato sulle montagne. Mi capisci Nando?” Roberto Canessa stava cercando di capire quali fossero le condizioni dell’amico.
Avrebbe voluto rispondere ma non riusciva a parlare e la testa gli faceva dannatamente male.
Allungò a fatica la mano nel punto esatto del dolore e sentì i frammenti dell’osso e qualcosa di gelatinoso che faceva capolino.
Improvvisamente Fernando Parrado capì che quello che stava toccando era il suo cervello.

Delle 45 persone a bordo, dodici morirono nell’impatto, alcuni furono catapultati fuori dopo il distacco della coda, altri morirono per la violenza dell’impatto e altri ancora per le gravi ferite.
I pochi superstiti una volta metabolizzato cosa era successo cominciarono a dare soccorso ai feriti nella speranza che quanto prima arrivassero i soccorsi a prelevarli.
Canessa e Maspons crearono delle amache sfruttando cinghie e aste metalliche in modo da sostenere coloro che avevano subito traumi agli arti inferiori.
Altri utilizzarono valige e sedili per formare una barriera contro il freddo che entrava dal punto in cui solo un attimo prima c’era la coda dell’aereo.

Decisero di organizzarsi in gruppi in modo che ognuno avesse un compito ben preciso da svolgere per migliorare, per quanto possibile, la loro sopravvivenza in attesa dei soccorsi.
Canessa, Zerbino e Liliana Methol furono scelti come gruppo medico, altri si sarebbero invece occupati di sistemare la fusoliera al meglio cercando di tenerla pulita e ordinata.
Il capitano della squadra di rugby razionò subito il poco cibo che consisteva in un sorso di vino versato in un tappo di deodorante e un assaggio di marmellata per pranzo, a sera un quadratino di cioccolato.
Quanto potevano durare queste misere scorte?
Sarebbero state sufficienti per tenerli in vita in attesa dei soccorsi?
Nessuno poteva saperlo.
Purtroppo altri 5 passeggeri morirono tra la nottata e il giorno successivo. I tanto attesi soccorsi tardavano ad arrivare, probabilmente non era facile trovarli.

I soccorsi avevano individuato l’area dove era precipitato l’aereo ma la ricognizione era particolarmente difficile a causa del maltempo.
Il colore bianco della fusoliera la rendeva praticamente impossibile da vedere in mezzo alla neve.
Anche le squadre di soccorso via terra non trovarono alcunché.
Era già passata una settimana dall’incidente e tra lo schianto, la mancanza di cibo, le fredde temperature, nessuno poteva essere ancora vivo.
Le autorità decisero quindi d’interrompere le ricerche.

Il 23 ottobre, 10 giorni dopo lo schianto le razioni erano finite, non c’era più niente da mangiare.
La radio di bordo funzionava solo in ricezione e questo consentiva loro di ascoltare cosa succedeva la fuori, nel mondo.
Una trasmissione però lasciò i pochi sopravvissuti senza parole: erano ufficialmente morti, le ricerche erano state interrotte.
In quel momento realizzarono una sola cosa: non avevano più cibo e nessuno sarebbe mai andato a salvarli.
Nel giro di pochissimi giorni sarebbero morti, tutti.
Ecco la loro unica certezza.
Questo pensiero cominciò a prevalere su tutti gli altri.
La pur piccola speranza di sopravvivere fu definitivamente messa a tacere.
La morte avrebbe vinto sulla speranza e tuttavia, anche se nessuno ne parlava, c’era un pensiero che cominciava a farsi strada con insistenza nelle loro menti.
Quel pensiero però oltre che terribile rappresentava anche qualcosa di abominevole.
Se volevano avere qualche misera possibilità di sopravvivere non c’era nessuna altra strada percorribile.
Il primo a rompere quel pensiero-tabù fu Fernando Parrado che sottovoce a Carlitos disse: “Taglierò un po’ di carne dal pilota. È stato lui a portarci qui, magari ci aiuterà a uscirne fuori.”
“Vaffanculo Nando.” mormorò Carlitos.
“C’è un sacco di cibo ma devi pensarlo solo come carne. Ai nostri amici il corpo non serve più” proseguì Nando.
Carlitos rimase per un attimo in silenzio prima di parlare.
“Dio ci assista” disse a bassa voce. “Stavo pensando la stessa cosa…”
Non fu una decisione facile né immediata per tutti.
La discussione si protrasse da mattina fino a sera perché per molti non era chiaro cosa fosse giusto o sbagliato fare.
Motivi morali o religiosi portarono a un’animata discussione nel gruppo.
Qual’era il confine tra giusto e sbagliato?

Dopo che i primi ebbero superato la ripugnanza accettando il fatto che quella fosse la sola, unica cosa giusta da fare, quasi tutti nelle ore successive accettarono di rompere quel tabù.
Liliana Methol, unica donna sopravvissuta, decise d’infrangere il tabù perché voleva rivedere insieme al marito, con lei tra i sopravvissuti, i quattro figli e voleva averne un altro.
Ognuno di loro trovò la propria motivazione per sopravvivere a tutti i costi.

Durante la notte del 29 Ottobre un’improvvisa valanga travolse completamente la fusoliera.
L’impatto fu così violento da togliere la vita a otto di loro. Daniel Maspons, Juan Carlos Menendez, Gustavo Nicolich, Marcelo Perez, Enrique Platero, Carlos Roque, Diego Storm e Liliana Methol.
Anche Nando Parrado fu sepolto dalla valanga ma nonostante fosse l’ultimo ad essere soccorso ne uscì illeso.
Alcuni compagni invece furono soccorsi troppo tardi.
Fu proprio dopo questo fatto che Parrado si convinse di essere predestinato a rimanere in vita per portare in salvo i compagni.
Era sopravvissuto alla valanga e allo schianto perché, poco prima dell’incidente, aveva cambiato posto con Abal che voleva vedere il panorama dal finestrino.

L’idea di progettare una spedizione prese corpo e si rafforzò quando anche la sorella di Parrado morì.

Per tre giorni i sopravvissuti rimasero all’interno della fusoliera: la tormenta la fuori non sembrava voler cessare. Per tre lunghissimi giorni furono obbligati a rimanere quasi fermi in quanto la neve aveva invaso la fusoliera.
Non c’era spazio neppure per distendere le gambe e molti dormirono in piedi.
Le condizioni in cui si trovavano li obbligò a fare i bisogni fisiologici sul posto.
Per sopravvivere si nutrirono con i corpi dei compagni morti nella valanga.
Al quarto giorno la tormenta cessò e i sopravvissuti poterono finalmente uscire e sistemare la fusoliera, portando fuori i deceduti, togliendo la neve e cercando di ripulirla.
Impiegarono otto giorni per renderla “abitabile”.
La valanga aveva certamente rafforzato e accelerato l’idea di organizzare una spedizione che si sarebbe diretta verso il Cile: i ragazzi, infatti, erano convinti che una volta scalato la montagna a ovest della fusoliera, avrebbero visto le verdi vallate del Cile e trovato quindi i soccorsi.

Parrado decise di portare con sé una scarpetta rossa da bimbo, lasciando l’altra nella fusoliera con la promessa di ritornare a prenderla.
Le scarpette erano state acquistate dalla madre, morta durante l’impatto, per il nipotino della seconda sorella di Parrado.
Dopo le numerose spedizioni fallite per trovare un centro abitato il 12 dicembre 1972 Parrado, Canessa e Vizintín partirono per una nuova impresa.

Impiegarono quasi tre giorni, invece di uno solo previsto, per raggiungere la cima del pendio a 4600 metri.
Arrivati in vetta però ciò che videro fu come un pugno nello stomaco: il solito panorama.
Al di sotto della vetta si stendeva una sterminata selva di picchi montuosi coperti di neve.
La spedizione, se fossero mai sopravvissuti, sarebbe durata parecchi giorni.
Per questo motivo decisero che Vizintín sarebbe tornato alla fusoliera in quanto i viveri non sarebbero bastati per tutti e tre.

Parrado e Canessa camminarono per altri sette lunghissimi giorni.
Dalla cima di una cresta intravidero a una decina di chilometri circa una valle.
La discesa fu più complicata del previsto e la stanchezza, la fame e il freddo rendevano ogni movimento estremamente difficoltoso e dispendioso di energie.
Raggiunto il corso d’acqua proseguirono il cammino costeggiando la riva.
Dopo lunghi giorni di cammino intravidero a terra qualcosa che attirò subito la loro attenzione: una scatoletta di latta.
I loro cuori si riempirono di speranza: avevano trovato un primo segno della presenza umana.
Ancora più avanti un gregge di mucche al pascolo.
Nonostante fossero ad un passo dalla salvezza si lasciarono andare a terra stremati con il fisico visibilmente provato.
Quella notte, mentre riposavano lungo la riva del fiume, scorsero in lontananza, dall’altra parte del fiume, un uomo a cavallo.
Canessa e Parrado cominciarono ad urlare con quanto fiato avevano nei polmoni.
Il rumore del fiume però sovrastava ogni cosa e l’uomo si allontanò dopo aver gridato qualcosa che nessuno riuscì a capire.
Canessa e Parrado non potevano crederci.
Erano ad un passo dalla salvezza ma questa per qualche strano motivo sembrava volerli ancora mettere alla prova.

Il giorno successivo dall’altra parte del fiume apparvero tre uomini a cavallo.
Parrado e Canessa si ritrovarono quindi nella stessa situazione del giorno precedente: come fare per comunicare?
Fu allora che uno dei tre uomini, il mandriano Sergio Catalán, prese un foglio di carta e scrisse:
“Più tardi arriverà un uomo a incontrarvi. Cosa desiderate?”
Il mandriano preso un sasso lo avvolse nel foglio di carta e con forza lo lanciò dall’altra parte del fiume.
Parrado lesse il messaggio e con un rossetto che si era portato con sé aggiunse:
“Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell’aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo? Quando arriverà quest’uomo?”.

Il mandriano, che non poteva conoscere la gravità della situazione, una volta letto il messaggio sobbalzò.
Lanciò loro delle pagnotte che i due ragazzi mangiarono avidamente.
Catalán si diresse così al galoppo al posto di polizia in modo che potesse essere organizzata una spedizione di soccorso al fine di portare in salvo tutti i sopravvissuti di quello che è passato poi alla storia come il disastro areo delle Ande.
Catalán durante il tragitto incrociò un altro mandriano al quale fece presente la situazione.
Catalán lo inviò quindi a raggiungere Parrado e Canessa per portarli al più vicino paese di Los Maitenes mentre lui avrebbe proseguito per avvertire la polizia di Puente Negro.

Il 23 dicembre, il colonnello Morel, comandante del reggimento di truppe da montagna Colchagua, avvertì le autorità della presenza di superstiti del disastro aereo del 13 ottobre.
Da Santiago partirono subito due elicotteri di soccorso.
Parrado salì a bordo di uno per portarli direttamente alla fusoliera e portare in salvo i suoi compagni.
Arrivati sul posto però si accorsero che le forti turbolenze e la ripidità del pendio non consentiva di far atterrare gli elicotteri.
Ecco che i piloti rimasero in volo stazionario a pochi metri dal suolo per consentire di caricare a bordo una parte dei superstiti.
Un paio di alpinisti e un infermiere rimasero sul posto fino alla mattina seguente, quando vennero tutti raccolti da una seconda spedizione di soccorso.
Tutti e 16 i sopravvissuti al disastro aereo delle Ande furono ricoverati in ospedale con sintomi di insufficienza respiratoria da alta montagna, disidratazione, traumi e malnutrizione, ma si trovavano comunque in condizioni di salute migliori di quanto si sarebbe potuto prevedere, nonostante alcuni avessero perso fino a 40 kg.

Nando Parrado, durante un’intervista disse: “Guardai Roberto e gli dissi: ‘Abbiamo due scelte, o moriamo qui guardandoci negli occhi o moriamo camminando. Io preferisco morire combattendo per la mia vita’ e fu per questo motivo che abbiamo continuato a camminare ed è per questo motivo che siamo vivi. Quella è stata la decisione più importante che ho preso nella mia vita: come morire“.

Non arrenderti:
rischieresti di farlo
un’ora prima del miracolo

Proverbio arabo

Tratto da upgradeyourmind.it

1 commento

  1. Maria Luisa

    ❤️💓🥰👍👍👍👍👍

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