“La solidarietà produce ricchezza”:
l’hotel gestito dai rifugiati

L’Hotel Giardino a Breno (Foto Facebook)

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Asif (nome di fantasia) è sbarcato in Italia nel 2010, quando era poco più che minorenne. Scappava da uno dei paesi più instabili del pianeta: il Pakistan. Dopo aver attraversato il Mediterraneo è approdato in un posto molto diverso dall’idea che un ragazzo di 18 anni straniero può avere dell’Italia. Breno, il paese di 4mila anime che lo ha accolto, si trova nel cuore della Val Camonica. Una terra da sogno, immersa nel verde delle Alpi centrali a circa 2 ore di macchina da Brescia. Qui comincia la sua vera vita. Viene accolto dai comuni della zona e in breve trova un lavoro e una casa. Si impegna poi nella realizzazione e nella gestione di un hotel all’avanguardia. Oggi ha 30 anni e anche la sua famiglia lo ha raggiunto. L’anno scorso è diventato a tutti gli effetti cittadino italiano e in paese hanno organizzato una piccola festa per celebrare l’evento. Da anni gestisce, come vicedirettore, uno degli alberghi più innovativi della valle: l’hotel Giardino di Breno.

Un albergo eco-sostenibile gestito da rifugiati 

L’hotel giardino nasce nel 2013 da un’idea della cooperativa sociale Kpax. Ha la caratteristica di essere eco-compatibile grazie a un rigoroso sistema di riciclo, un sistema di ristorazione a chilometro zero, l’uso di prodotti appartenenti alla catena di commercio equo e solidale, l’utilizzo di vernici e materiali bio-compatibili e una grande attenzione al territorio. Ma la sua caratteristica principale è quella di essere portato avanti prevalentemente da rifugiati e di avere ripercussioni positive su tutto il territorio. Un progetto realizzato grazie all’intraprendenza di un gruppo di persone che ha di fatto riscritto le regole dell’accoglienza.
“L’idea nasce nel 2011, avevamo bisogno di una sede più grande e c’era questo hotel in dismissione che abbiamo deciso di prendere in affitto – ci spiega Carlo Cominelli, direttore della cooperativa Kpax – Lo abbiamo risistemato e siccome avevamo delle professionalità che avevamo sviluppato nei nostri progetti di accoglienza, abbiamo deciso di provare a riaprirlo: Le cose devo dire che sono andate molto bene”.

Si, perché riesce a unire la solidarietà al vantaggio economico per tutto il territorio: “L’albergo ci garantisce una buona marginalità con la quale possiamo finanziare altri progetti sociali. È gestito da titolari di protezione internazionale accanto a operatori italiani della nostra comunità – aggiunge Cominelli – Le nazionalità dei lavoratori coinvolti sono variegate: dall’Afghanistan al Pakistan, dal Gambia all’Africa Centrale. La cosa interessante è che grazie a questo sistema finanziamo anche progetti di solidarietà locale, come quello per le vittime di violenza domestica che abbiamo realizzato in passato. L’attività è portata avanti prevalentemente da rifugiati, ma ha di fatto ricadute positive per tutto il territorio”. E l’esperienza dell’hotel non è certo un caso isolato, ma si inserisce in un progetto strutturale che avrebbe potuto fare scuola in tutta Italia.

Così in Val Camonica si è ridisegnata l’accoglienza 

La loro esperienza è diventata un caso e poi un libro, intitolato, non a caso “La Valle accogliente”. Nel mezzo della crisi migratoria del 2011 e della fobia per gli sbarchi, undici comuni della Val Camonica, nel bresciano fanno squadra per accogliere oltre 100 persone provenienti dal continente africano. Fuggono da guerre, fame e terrorismo e lo Stato italiano li ha confinati nelle prime strutture disponibili nell’area: “Il progetto dell’accoglienza diffusa nasce ai tempi della crisi migratoria del 2011, quando la prefettura decide di piazzare in tre resort abbandonati di alta montagna centinaia di rifugiati mollandoli di fatto lì. Questa sorta di emergenza ha fatto muovere la macchina della solidarietà” spiega Cominelli.

Una situazione di disagio da cui nasce uno degli esempi più riusciti di accoglienza di questi ultimi anni. Uomini e donne vengono accolti nei borghi della valle. I nuclei famigliari vengono sparsi nei territori e viene utilizzato il privato sociale e il terzo settore per puntare sull’integrazione. Alle persone viene dato un alloggio e si cercano di favorire: impegni nel volontariato, stage di lavoro, lavori agricoli o legati all’artigianato. È l’inizio di quella che viene chiamata accoglienza diffusa, modello alternativo a quello dei grandi centri spesso oggetto di tensioni e polemica politica. Si cerca di spostare il problema dell’accoglienza da fenomeno straordinario a ordinario. “È stato il primo esperimento di questo tipo in Italia ed è servito ad accogliere centinaia di persone tra rifugiati e richiedenti asilo e permettergli di integrarsi sul territorio”. […]

Tratto da un articolo di Daniele Tempera
pubblicato su today.it

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