Succede sempre qualcosa di meraviglioso

di Gianluca Gotto

Dalla 2°di copertina

“Succede sempre qualcosa di meraviglioso” è il racconto di un viaggio che ha come protagonista Davide, un ragazzo che vede tutte le sue certezze crollare una dopo l’altra, fino a perdere il desiderio di vivere. E Guilly, un personaggio fuori dal tempo che Davide, per caso o per destino, incontra in Vietnam e da cui apprende un modo alternativo e pieno di luce di prendere la vita.

Una storia di rinascita in cui perdersi per ritrovarsi, che Gianluca Gotto racconta portando il tema della ricerca della felicità – già affrontato nell’autobiografia “Le coordinate della felicità” – su un piano universale: la destinazione finale di questo viaggio non è conquistare un certo tipo di vita, ma uno stato d’animo. Una sensazione di calore che è sempre dentro di noi, indipendentemente da quello che il destino ci ha riservato.

Potremmo chiamarla in tanti modi: serenità, pace interiore, leggerezza, calma. Oppure, come direbbe Guilly, “la sensazione di essere a casa, sempre”.

Succede sempre qualcosa di meraviglioso

Dalla 4°di copertina

“Questo viaggio è una follia, e una persona
puramente razionale non l’avrebbe mai fatto.

Che tu voglia ammetterlo oppure no.
Se sei qui è perché hai deciso di assecondare
il richiamo verso qualcosa di più grande.

Forse, ora, bisogna solo avere il coraggio
di proseguire su questa strada.

Capitolo 14

Quella notte dormii a lungo, ma male. Feci dei sogni strani e brutti, di cui, quando mi svegliai, non ricordavo più nulla. Feci colazione da solo, perché mia madre non c’era. Mi misi davanti alla finestra: era una giornata splendida, l’ennesima che non sarei riuscito a godermi. Avevo dato la disponibilità dall’una del pomeriggio alle ventidue.

Per quanto volessi lasciarmi alle spalle tutta quella storia, sembrava che ci fosse una forza più grande di me che me lo impediva. Provavo ad andare avanti con la mia vita ed ecco che succedeva qualcosa di sconvolgente. Il problema di credere che esistano dei segnali dall’universo è che poi devi seguirli. Un conto è dire che sono tutte coincidenze, che non c’è nessuna forza più grande che sta provando a dirti qualcosa, un conto è crederci, anche se magari affermi il contrario, e poi non fare nulla. Comportarsi così è quasi sacrilego.

Sapevo che Luigi l’avrebbe pensata esattamente alla stessa maniera e fu questo il motivo per cui quella mattina lo chiamai e gli chiesi di passare da me. Mi rispose con tante faccine sorridenti, era felice che ci vedessimo senza la divisa da rider, in un posto diverso dall’ingresso del fast food sotto i portici.

Dentro casa, Luigi sembrava ancora più alto e grosso. Si guardò intorno come un orso che entra in un bosco incantato.
“Bella casa” disse tutto allegro.
“Grazie, Luigi.”

Poi gli raccontai tutto. Tutto quello che avevo dentro, tutti i dubbi. Sottolineai la necessità di trovare qualcosa di concreto a cui appoggiare i piedi per poter fare quel salto nel buio. Quando conclusi, restammo in silenzio per un po’. Mancava mezz’ora a mezzogiorno.

“Tu cosa faresti?” gli chiesi.
“Cosa farei?”
“Sì. Nei miei panni.”
Luigi allargò le braccia.
“Forse cercherei fra le cose del nonno.”
“L’ho già fatto. Non ho trovato niente.”
“Dove hai guardato?”
“Ovunque. In ogni stanza della sua casa. Tra le sue foto, i suoi vestiti, i suoi libri …”

Mi fermai sull’ultima parola. I libri li avevo controllati, certo, ma ne erano rimasti pochi sugli scaffali della libreria. Mia zia li aveva tolti per potersi prendere il mobile. Ma quei libri dove erano finiti?
“Faccio al volo una telefonata, okay?”
“Certo” rispose Luigi. “Posso avere un bicchiere d’acqua?”
“Preferisci una Coca?”
Lui sorrise imbarazzato. Sorrisi anche io e gli presi una Coca dal frigo. Poi andai in camera a chiamare mia madre.

“Sì?”
“Ciao, ma’. Tutto bene?”
“Bene, bene. Il mare è bellissimo oggi. Certo, c’è un sacco di gente.”
“Okay. Volevo chiederti una cosa: hai presente la libreria del nonno? Ho visto che zia l’ha svuotata quasi completamente.”
“Sì.”
“Ecco, ma i libri che fine hanno fatto?”
” Sono in garage.”
“In garage? Nel nostro?”
“Sì … Alla fine non me la sono sentita di buttarli. Lui ci teneva tanto.”
“Hai fatto bene”.
“Li vuoi tu? Sarebbe bello.”
“Non lo so. Vado a dare un’occhiata, però. Poi ti dico.”
Ci salutammo e tornai da Luigi.
“Andiamo in garage. I libri sono lì.”
Lui non disse nulla, ma annuì tutto contento.

Si stava bene in garage, era fresco e buio. Era un posto lontano dal rumore là fuori. Accesi la luce e vidi che contro la parete destra, sul fondo, c’erano tre pile di libri alte più o meno un metro. Ci avvicinammo, erano vecchi volumi impolverati. Dovevano essere quelli, i libri del nonno.

“Diamo un’occhiata” dissi. “Vediamo se troviamo qualcosa.
“Dai” fece Luigi provando, invano, a celare un po’ di quell’entusiasmo da bambino che lo pervadeva.

Mi chinai per esaminare i titoli uno per uno. C’erano romanzi classici, manuali, libri d’arte. Tanti volumi di enologia. Ero quasi arrivato alla fine della pila quando ne trovai uno che catturò la mia attenzione. Il nome dell’autore era occidentale, forse americano: Alan W. Watts. Il titolo, però, portava a immaginare l’estremo Oriente: La via dello Zen.

Lo aprii pensando che quello fosse il primo e unico collegamento tra mio nonno e l’Oriente. Lessi le prime pagine, gli argomenti mi sembrarono complicati. Era un libro di spiritualità, un altro fattore assolutamente in contrasto con mio nonno, uno che non era mai andato in chiesa. Mi era sempre sembrato troppo razionale per credere in qualcosa. Proprio come me.

Lo sfogliai senza trovare nulla. Feci per posarlo in cima alla pila quando Luigi indicò qualcosa ai miei piedi.

“Ti è caduta.
“A me?”
“Dal libro.”

Mi chinai a raccogliere quella che alla luce fioca del garage mi parve una cartolina. Quando la presi in mano, però, il mio cuore saltò un battito. Era una fotografia. Era solo leggermente consumata, un bordo era piegato e il tempo aveva fatto la sua parte ingiallendola in alcune aree. Però era ancora ben visibile. E il soggetto era chiaro.

C’erano due uomini, in posa davanti a quella che sembrava una statua orientale, bianca e imponente. Si trovavano in una piazza, o forse su un molo. Intorno a loro centinaia di persone, tutte asiatiche. L’uomo a sinistra aveva la barba e i capelli lunghi mossi dal vento, indossava una camicia senza bottoni, di quelle che infili dalla testa. Aveva pantaloni leggeri, neri, e sandali ai piedi. Rideva, con la testa un po’ inclinata all’indietro.

L’altro aveva il volto perfettamente rasato e i capelli in ordine. Indossava una camicia bianca ben stirata e pantaloni grigi eleganti. Sottobraccio teneva la sua giacca, piegata con cura. Anche lui rideva, ma era come se non volesse lasciarsi andare più di tanto. Aveva l’aria di uno che si è appena ripreso da una malattia, e quindi è felice ma teme una ricaduta.

Ecco mio nonno. Girai la fotografia, le mani mi tremavano. Luigi si avvicinò e disse qualcosa, però non lo ascoltai. L’inchiostro blu era quasi sbiadito, ma era impossibile non riconoscere quella calligrafia elegante e perfetta. Il nonno aveva scritto poche parole sul retro della fotografia. Dovetti rileggere tre volte per essere certo che fosse tutto vero.

“Io è Guglielmo.

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