All’apice della mia carriera di dirigente d’azienda
ho mollato tutto per dedicarmi alla meditazione

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Negli ultimi vent’anni ho avuto la possibilità di incontrare migliaia di persone con cui ho condiviso i benefici della meditazione. Tra queste, molte hanno deciso di affrontare un cambio di vita radicale. Una trasformazione nelle abitudini alimentari, nella qualità delle relazioni, nella sfera sessuale, nel tipo di lavoro e nel modo di affrontare la vita in generale. Io stesso trent’anni fa ho vissuto il medesimo processo trasformativo, che mi ha portato a rinunciare per due volte alla carriera universitaria e a molte opportunità che mi sono state offerte.

Oggi, solo in Italia, sono milioni le persone che attraversano questa esperienza, tanto da dar vita non solo alla cosiddetta “Yolo Economy”, ma anche alla “Passion Economy”, la tendenza a intraprendere un’attività lavorativa non più solo per carriera o per soldi, ma per seguire le proprie passioni. E conoscere sé stessi è un elemento fondante.

Cosa spinge, dunque, a una scelta così profonda e cosa può accadere a seguirsi? Roberto Pagani, fra le persone con cui collaboro più spesso e che ha studiato e praticato con me meditazione per circa nove anni, è stato per oltre trent’anni dirigente d’azienda e consulente strategico di multinazionali. Una carriera gratificante, di grande successo, tra viaggi, riconoscimenti e una vita nel cuore pulsante di Londra. Tuttavia, più aumentavano lo stipendio, i premi e i titoli, più cresceva dentro di lui la sensazione di vuoto, di assenza da sé stesso. Finché un lutto importante l’ha portato a fermarsi e a guardarsi dentro. Da lì ha cambiato totalmente vita: si è avvicinato alla meditazione e, grazie ad essa, ha potuto riconoscere la reale direzione da intraprendere.
Sono sempre di più le persone che vivono una sensazione di profonda disconnessione da sé stessi e dai ritmi naturali. Medici, infermieri, insegnanti, architetti, impiegati, manager, giornalisti … persone che arrivano a un certo punto del loro percorso e semplicemente prendono coscienza che quel modo di vivere non appartiene più loro. Ultimamente accade sempre più frequentemente tra i giovani appena ventenni. Perché?

Alla base del processo di trasformazione esiste la presa di coscienza del livello di disconnessione in cui si vive. Disconnessi da sé stessi, dalle proprie reali esigenze e necessità, dalla natura e dai suoi cicli. La maggior parte dei desideri che proviamo non ci appartiene realmente e non soddisfa i nostri bisogni profondi, ma è espressione di esigenze di mercato o aspettative familiari, oppure ancora di modelli prodotti dalla società e dal contesto. Viviamo in costante fuga da noi stessi e, se da un lato cerchiamo di sostenere il personaggio che abbiamo creato, di essere amati, accettati e funzionali a un sistema, dall’altro cerchiamo di anestetizzarci e non sentire le nostre ferite, le insicurezze, le imperfezioni e le fragilità. Ma questa non è vita. È un’idea distorta di ciò che dovrebbe essere.

A pensarci bene, c’è una distorsione di fondo che accomuna il modo in cui l’essere umano sfrutta gli animali negli allevamenti intensivi e come la società schiavizza le persone in un sistema votato al profitto e ai consumi. Vite interamente spese a lavorare disumanamente per produrre cose che altri, lavorando disumanamente, compreranno. A questo punto credo possa essere normale che di tanto in tanto qualcuno prenda coscienza che la propria vita e i modelli proposti non gli appartengano. Non si tratta di rifiutare un sistema e boicottarlo, ma semplicemente vivere coerentemente con ciò che si sente di essere nel profondo, con la propria vocazione e unicità. Per questo a qualcuno viene voglia di fermarsi e iniziare ad ascoltarsi, ritrovare i valori che diano un profondo significato alla vita, sentirsi connessi con la natura, in sintonia con i ritmi dei cicli della vita e in contatto profondo con sé stessi e con gli altri in una maniera più autentica, empatica e compassionevole. A me è accaduto a più riprese dopo la prima grande trasformazione.

Da poco, poi, mi è stata posta questa domanda: “Se dedico tempo a me stessa e alla meditazione mi sembra di negare tempo alla mia famiglia e mi sento in colpa, come posso fare?” La mia risposta ha portato l’attenzione a come la pratica meditativa generi in noi lucidità, benessere, ascolto, empatia, compassione, chiarezza e, soprattutto, qualità della nostra vita. Ci sentiamo in colpa a creare uno spazio di benessere personale, perché non riflettiamo su quanto, invece, i benefici che ne derivano siano eredità preziosissime da donare ai nostri cari. Dopo alcuni mesi di pratica ci si può ricredere. Siamo, però, talmente assuefatti e dipendenti dalle abitudini malsane e dagli stili di vita tossici, dalla rabbia e dalla frustrazione, che ci sembra impossibile poter cambiare. Per questo a volte è necessaria una trasformazione radicale. Cambiare vita. La radice di quel desiderio è la nostra vera natura che reclama il suo posto nella vita. Avremo il coraggio di rispondere alla chiamata?

Daniel Lumera
Tratto da ilfattoquotidiano.it

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